Sono per strada. Una strada di campagna, che mi ricorda vagamente quelle che ho visto nell’entroterra cubano. Salgo su un autobus color celeste chiaro a forma di barca con le ruote, lungo circa quanto un vero autobus. Con me ho uno zaino enorme, gonfio di roba. Mi seggo accanto ad una famigliola con cui scambio quattro parole ma ho quasi subito la sensazione di aver preso l’autobus sbagliato. Mi ritrovo di nuovo per strada, di fronte alla porta frontale e chiedo al conducente informazioni sula destinazione del suo mezzo di trasporto. Mentre mi risponde noto una targa affissa su un fianco del suo gabbiotto e capisco che quello è l’autobus per la Sardegna. Quello che devo prendere io è subito dietro a questo.
E’ il 24 di Dicembre. In uno stanzone abbastanza grande, sto aspettando, in mezzo ad un bel po’ di altre persone, di imbarcarmi sul volo che ci porterà in Corsica per le vacanze di Natale…
Indosso un piumino nero e lungo. Sono abbastanza euforico all’idea del viaggio. Infilo la mano sinistra nella tasca sinistra dei jeans per prendere il cellulare ma non lo trovo. Inizio a tastarmi tutte le tasche ma niente cellulare. Vado nel panico. Dopo poco lo trovo (non ricordo dove) e, felice di averlo ritrovato, mi butto a terra dalla contentezza, a pancia in giù, e inizio a baciare lo schermo del telefonino… Forse gli dico pure qualcosa…
Mi rialzo e noto che i passeggeri iniziano ad avviarsi verso il tunnel, di stoffa beige, che condurrà loro e me all’aereo. Un tipo, che indossa un giacchetto beige, commenta dicendo “Meno male che hanno fatto questo tunnel eh… prima era tutto all’aperto.”. D’altronde è inverno e se non ci fosse stato ‘sto tunnel avremmo tutti sentito del gran freddo…
Percorso il tunnel ci ritroviamo in un altro stanzone dalle sembianze di una classica biblioteca. Tanti scaffali in legno di castagno ospitano altrettanti libri di ogni sorta. Di fronte a me un tavolo lungo a cui sono seduti i compagni di viaggio. Deduco sia la sala d’attesa, dove i passeggeri possono procurarsi delle letture da portare sull’aereo. Vengo attratto da una vetrinetta appesa al muro piena di libri e fumetti di chiara provenienza orientale. Commento dicendo “Ammazza quanti libri giapponesi!” ragionando poi sul fatto che sono quelli che viaggiano di più in assoluto, giustificando così la grande fornitura di letture nipponiche…
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Il tubetto di dentifricio & Co.
Seduto ad una scrivania, nell’appartamento di N.P, di fronte a me un monitor di un computer. Cerco un dentifricio per potermi lavare i denti. Ne trovo uno e lo compro (dove non si sa). Appena lo apro mi accorgo che ce n’era già un altro aperto, appeso ad una mensola di legno. Resto colpito positivamente dal modo in cui N. lo ha appeso ad un gancetto, infilato nella parte piatta posteriore del tubetto, a testa in giù. In questo modo basta aprire il tappo e premere per depositare del dentifricio sullo spazzolino. Il tubetto è di un bel giallo ocra. Quello che ho comprato io è tendente al blu. Appendo il mio tubetto alla mensola accanto a quello già presente.
Nell’altra stanza dell’appartamento c’è delle gente. Forse mi trovo lì per una festa. Ma la sensazione che ho dentro mi suggerisce che il resto delle persone presenti si stia preparando per uscire. O forse sono io che so che dovrò uscire di lì a poco. So che c’è un concerto a cui vorrei partecipare.
Dietro di me una finestra. Mi affaccio, c’è una piscina condominiale illuminata. E’ notte e l’effetto che fa è molto piacevole. Il tipico colore celeste delle piscine si staglia nell’oscurità del giardino condominiale.
Mi ritrovo di nuovo alla scrivania, che è sistemata in uno degli angoli della stanza. Alla mia sinistra il muro che confina con l’appartamento adiacente. Anche il muro è giallo. Sento delle voci. Appoggio l’orecchio al muro per ascoltare. Nel frattempo mi viene in mente che l’appartamento di N. sia quello e non questo in cui mi trovo. Inotlre mi rendo conto di stare nella casa di G. a San Quirico.
Accanto a me ora ci sono due ragazze. Si stanno preparando per uscire, una di loro è K.L.. Le rivolgo la parola, le faccio una domanda. La sua risposta è “Eh… è perchè ti puzzano le ascelle.”. Le rispondo a tono dicendole “Sempre meglio le ascelle che il culo.”.
Ho anche sognato che avevano arrestato mio suocero…
Prima di mettermi a letto, invece, mi sono addormentato sul divano dove ho sognato di guidare un pullman/camion bianco su una strada sterrata a tutta velocità, non curante di tutto quello che trovavo sul mio cammino. Tutto quello che ricordo è che pestavo l’acceleratore in maniera esagerata e travolgevo qualsiasi cosa trovassi sulla strada.
Gli Uzi inceppati
Sono con Root (personaggio femminile della serie televisiva “Person of Interest”) in un poligono di tiro clandestino. Dei tizi poco raccomandabili ci stanno mostrando, uno alla volta, dei modelli di Uzi. Sono neri, belli e letali. Un tizio in particolare li carica con dei proiettili esagerati e ce li passa. Arriva il primo a Root e una volta nelle sue mani mi preoccupo subito di aiutarla a dirigere la canna verso il fondo del poligono di tiro. Prova quindi a sparare ma l’arma non spara… Uno dei tipi che abbiamo intorno si avvicina frettolosamente, prende l’Uzi e dice sorridente “È l’occhiello rotto”. Ce ne dà subito un altro e consegna quello difettoso ad altri suoi compagni che sono posizionati sulla porta. Loro lo prendono e lo portano fuori.
Secondo Uzi, provo a sparare io, niente… e fa la fine del primo, ovvero in mano ai tipi di fuori. A questo punto mi insospettisco ed esco fuori anche io. Voglio personalmente dare un’occhiata agli Uzi. Mentre ne maneggio uno elaboro molto attentamente quello che sta realmente succedendo e giungo alla conclusione che hanno inscenato l’inceppamento affinché ci potessero togliere gli Uzi dalle mani per poi consegnarli a chi ci avrebbe fatto fuori.. tutto torna, non ho alcun dubbio. E ora sto cercando disperatamente di farne funzionare uno in modo da poter aprire il fuoco per primo… senza però riuscirci.
Aziono leve che non si azionano, premo parti rosse di plastica che non si premono, giro e rigiro l’arma e penso a cosa potrò fare per salvarmi la pelle…
Mi ricordo improvvisamente di avere l’abilità di diventare invisibile! Ma solo per 30 secondi… durante i quali potrei coprire una distanza sufficiente a portarmi in salvo dalle raffiche di proiettili.
Mi ritrovo in una stanza d’albergo o di una casa, sul letto una valigetta contenente l’Uzi e una ventina di caricatori dalla forma improbabile. Con me c’è un’altra persona. Commento stupito le dimensioni esagerate delle munizioni presenti nei caricatori.
Gelosie estive
Mi trovo seduto ad un tavolino quadrato di legno, sotto all’incannucciata del portico di un bar di una località marittima non ben identificata. Di fronte a me un bicchiere pieno di un succo di frutta qualsiasi. Il tavolino è posto al limite del portico e dà sul vialetto di mattoncini color cotto, io do le spalle al bar.
Una ragazza con un seno enorme e sodo passa di fronte a me. Indossa una maglietta bianca mezza trasparente e ha un’andatura talmente ritmata da farle agitare il seno. La seguo con lo sguardo e nel momento in cui si ritrova alla mia estrema sinistra noto che il suo seno ora è particolarmente calato…
Resto con lo sguardo puntato alla mia sinistra e noto un ragazzo e una ragazza che si azzuffano sulla sabbia. In realtà il ragazzo pare sia inciampato e sta quindi cadendo sulla ragazza che tra l’altro è in topless… L’aspetto più interessante però è che la scena si svolge al rallentatore e questo mi da modo di prepararmi con tutta calma ad evitare le secchiate di sabbia che stanno alzando.
Con altrettanta calma, attenzione ed interesse, osservo anche il lentissimo movimento del seno della tipa coinvolta.
Il rallentìo termina e la tipa, da terra, scalcia della sabbia sul didietro del tipo. Me li ritrovo accanto che discutono dell’accaduto, davanti ai miei occhi il didietro insabbiato del ragazzo.
Chiedo a S.P., che si trova oltre il portico del bar, come sia andata la sera prima. Mi risponde “Ha fatto il bravo, ma io non…”. Ma non riesco a capire la fine della risposta. Risposta che comunque non mi soddisfa dal momento che ero sicuro che la sera prima sarebbe dovuta andare fuori città e non uscire con qualcuno.
Alla mia destra, sdraiata su un lettino, c’è M.G.M.. Ha i capelli neri e leggermente mossi e indossa un bikini dai toni azzurri. Mi illumina sulla risposta di S. dicendomi a voce bassa “È uscita con lo storico, è molto bello.”, intendendo per “storico” lo studioso di storia. Nel frattempo S. sta giocando con dei bambini in una voragine erbosa in cui sparisce… Mi ingelosisco un po’ e giro lo sguardo verso sinistra, verso l’uscita dello stabilimento, pronto a fare una scenata coi fiocchi così che S. si renda conto di quanto tenga a lei.
Cambio idea e decido di entrare nel bar. Chiedo a M.G. se vuole qualcosa e dopo una serie di “Niente grazie.” decide per un lemonissimo.
Entro nel bar e mi rendo conto che in realtà è più che altro un ristorante. Alla mia sinistra una cameriera è intenta a fare la scarpetta in un vascone enorme dove è rimasto del sugo e dei gamberetti. Dopo qualche tentativo riesce a raccogliere del sugo, evitando di portare su anche i crostacei, e si porta, in maniera molto teatrale, il pezzo di pane alla bocca. Lo fa velocemente per non farsi beccare dal principale. La ritrovo seduta ad un tavolino.
Il gatto bambina
Passeggio nella piazza di un paesello non ben identificato quando scorgo un gattino minuscolo che dorme beato ai piedi delle scalette di una casa. È leggermente striato, di un bel mix si colori molto chiari tendenti all’acquamarina… Mi assale una voglia incontrollata di accarezzarlo e coccolarlo ma quando vado per prenderlo il gattino ai dimena e cerca di scappare. Gli dico di non scappare perchè voglio fargli solo tante coccole. Lo riprendo più e più volte fino a che non lo afferro saldamente e me lo porto in braccio. Inizio ad accarezzarlo sulla pancia e sotto il mento e a lui piace. Dopo poco noto che ha preso le sembianze e dimensioni di una bambina di circa cinque anni. Ha un viso bellissimo e degli occhi splendidi dello stesso colore che aveva il pelo del gatto. Le dico che è molto bella e, mentre la poggio a terra, che lo sarà ancora di più quando tornerò a trovarla tra quattro o cinque mesi.
Cambio di scena e mi ritrovo sul marciapiede di una città qualsiasi. Sono di fronte a un locale forse in attesa di entrare. Arriva una ragazza che forse conosco. Non mi nota e decido di stringerle il braccio affinchè mi veda. Si gira, è F.F., ma rispetto alla realtà è molto più alta e snella. Indossa un cappottone nero e ha i capelli lunghi, lisci e castani. Ci salutiamo. Mi giro verso l’altro lato della strada, guardo verso una sorta di macelleria, so che F.L. è andata a comprare la carne.
Mi ritrovo sullo stesso marciapiede ma poco più in là del locale, accanto ad un alberello. Con me ora c’è F.L.. Le racconto di aver sognato il gattino di cui sopra, dicendole anche di aver appreso, nel sogno appena fatto, che il termine “barboncino” in origine era stato coniato per i gatti.
Le lavandaie
Sono per strada nei pressi del mio posto di lavoro. Molto probabilmente in pausa pranzo, perchè sto cercando di decidere in quale bar andare a mangiare. Quello più lontano non l’ho mai visitato. Decido di farlo e mi metto a correre altrimenti farò tardi. Ai piedi ho degli zoccoli di legno che rallentano la mia corsa. Decido quindi di tornare indietro per andare all’altro bar. Dopo poco mi giro verso il bar lontano e mi rimetto a correre per raggiungerlo. Noto che si trova nello stesso punto dove sorge un gommista. Quest’ultimo aspetto mi fa desistere e torno indietro per la seconda volta.
Mentre costeggio le mura dell’ufficio, almeno 10 volte più grande di quello reale, sento delle voci provenire da un seminterrato. I locali lavanderia. Mi affaccio furtivamente e dietro ad un paravento color bianco sporco ci sono una signora rossa e una ragazza mora. Stanno chiacchierando del più e del meno. Mi intrattengo fuori della finestra nella speranza che inizino a spogliarsi. Faccio avanti e indietro come per rinnovare il mio passaggio casuale nei pressi della finestra fino a che la signora rossa si cala i calzoni mostrandomi il suo splendido didietro.
Da un’altra finestra un tipo coi baffetti mi guarda insospettito e poco dopo iniziano a farlo anche le due tipe nell’altro locale.
Decido di allontanarmi.
Mi ritrovo all’interno di un palazzo, sul pianerottolo del primo piano. In una rientranza sta seduta la ragazza della lavanderia. Ha i capelli neri e lisci, la frangetta ed è vestita di verde. Mentre mi avvicino mi mostra accidentalmente il seno. È minuto ma perfetto.
Una volta vicino alla ragazza mi faccio coraggio e le chiedo se vuole prendere un caffè. Lei dice di no. Le faccio notare che è la prima volta in vita mia che chiedo ad una ragazza di offrirle un caffè ma questa cosa non fa altro che aumentare il suo disagio.
Dal corridoio alla mia destra arriva con passo affrettato il tipo coi baffetti. Non mi fa domande ma si ferma di fronte a me. Cerco di dimostrargli che non ho cattive intenzioni. Mi rivolgo alla ragazza nella speranza che possa fargli capire che sono in buona fede. Le dico “Digli cosa ti ho chiesto” e lei gli dice che le avevo solo chiesto di prendere un caffè. Di seguito aggiungo, in maniera sufficientemente seria, “Non sono un molestatore”. Questa mia ultima affermazione sembra aver sortito l’effetto desiderato e io e il tipo coi baffetti scendiamo al piano terra.
Mentre scendiamo mi dice che non tutti sono sinceri come me (o qualcosa del genere). Ci ritroviamo all’entrata del palazzo, di fronte al portone a vetri. Mentre chiacchieriamo noto, guardando attraverso il portone, un tipo con la maglietta verde scura sdraiato in mezzo ad un incrocio. I passanti lo snobbano. Mi preoccupo per lui ma subito dopo si alza e se ne va.
Mi accorgo di avere pantaloni e boxer abbassati e mentre cerco di ritirarmeli su mi scuso con baffetto. Ridiamo, anche perché i pantaloni sono molto stretti e faccio fatica ad allacciarli. Mentre sono ancora mezzo denudato, sempre guardando attraverso i vetri del portone, noto un mio collega che si avvicina al palazzo. Penso si tratti di F.C.. Cerco di affrettarmi a rivestirmi per non farmi vedere in quelle condizioni. Il tipo entra nel palazzo, non era un mio collega.
I DJ impediti, le amiche ballerine e l’orso bruno
Sono in un locale dove sta per iniziare una serata musicale in cui si esibiscono due DJ. Il posto è tutto in legno, tipo baita di montagna… Lo speaker annuncia il duo e mi avvicino alla consolle. I due si guardano e iniziano la routine. Dopo qualche scratch parte il beat e inizio a muovere la testa a tempo. “Niente male” penso. Ma dopo circa 30 secondi si fermano. Il tipo al campionatore, una sorta di MPC dal colore dorato, cerca di farlo suonare a dovere ma non ci riesce. Preme tasti a caso sperando di trovare la causa del malfunzionamento. Il pubblico non reclama, si dimostra comprensivo. Il DJ non sembra molto imbarazzato dal contrattempo. Niente da fare… Dopo vari e vani tentativi ci ritroviamo tutti a tavola a discutere dell’accaduto. C’è chi da la colpa al campionatore, chi al DJ e chi, come me, al cavo che collegava l’apparecchio al mixer. “I cavi si rompono facilmente” dico, “basta passarci sopra con la sedia e si rompono e non trasmettono più il segnale”. Quasi tutti sono d’accordo.
Mi ritrovo ad un tavolo con C.P. e un’altra ragazza che potrebbe essere I.B.
Beviamo dei cocktail.
Ad un tratto C.P. tira fuori un ombrello a strisce, di un colore tendente al giallo/arancione. È molto grande. Così grande che quando lo apre il suo corpo viene completamente coperto dall’ombrello. Poi nizia a ballare muovendolo in modo da creare una certa coreografia. Anche I.B. Inizia a fare la stessa cosa ma con dei pezzi di stoffa. Mi avvicino in fretta a loro con il cellulare in mano, voglio scattare delle foto. Sono vicinissimo a I.B. tanto che mi sfiora il viso con i pezzi di stoffa che sta facendo volteggiare. Mi rimane difficile mettere a fuoco. inoltre la luce è poca e le due ballerine si muovono veloci quindi penso che le foto verranno male. Ma con mia grande sorpresa un paio vengono abbastanza bene.
Mi ritrovo nel piazzale fuori il locale, è giorno, C.P. continua a ballare accanto al muro. Ridiamo parecchio. Nella mano dove avevo il cellulare ora ho una sorta di racchetta da ping pong con cui colpisco una pallina di gomma che rimbalza in continuazione sul muro davanti al quale sta ballando la mia amica. Passa un signore, dice qualcosa che non ricordo.
Sono al telefono con S.P., accanto a me i miei figli. Guardo verso un giardino in cui scorgo un orso bruno che cammina su due zampe. È enorme ma apparentemente innocuo. Intorno a lui passeggiano delle persone. Lo faccio notare ai miei figli, una lo vede l’altro se lo perde.
Profumo di donna e parassiti sottocutanei
Sono ad un pranzo insieme a molte altre persone. I tavoli sono quelli che si potrebbero trovare ad una sagra e sono disposti un po’ alla rinfusa.
Siedo accanto ad una ragazza mora vestita di nero. So bene chi sia anche se nel sogno la somiglianza non è del tutto fedele. Mi avvicino al suo collo ripetutamente e in maniera furtiva per annusarne il profumo. Dopo aver rubato per due o tre volte la dolce essenza dal suo collo, noto un’altra ragazza vestita completamente di bianco, mora anch’essa, dall’altro lato del tavolo, che mi fulmina con lo sguardo e mi manda a quel paese mimando un vaffa con la bocca.
In quel momento mi ritrovo seduto a capotavola, con la testa abbassata, rivolta verso il pavimento. Accavallo la gamba sinistra sulla destra e noto un piccolissimo puntino di grasso sulla caviglia. Inizio a grattarlo con l’unghia del dito indice della mano destra per cercare di asportarlo ma più gratto, più il puntino diventa grande… E quando ha raggiunto le dimensioni di qualche millimetro, inizia a muoversi, proprio come farebbe un piccolo vermetto bianco. Rendendomi conto di cosa stavo ospitando sotto la pelle della mia caviglia, afferro con le dita la piccola sporgenza bianca e soda e tiro con decisione, ritrovandomi in mano un verme di qualche centimetro. Sorprendentemente non sento alcun fastidio o dolore e la cosa mi rincuora anche perchè quando osservo meglio il buco lasciato dal verme noto che dentro ce ne sono altri più o meno lunghi. Ne afferro un altro e lo tiro fuori. E poi un altro ancora, e ancora. Nella mano ormai ho cinque o sei vermi di varie grandezze e sulla caviglia un buco di qualche centimetro, senza più parassiti al suo interno. Non noto molto sangue.
Mi alzo dal tavolo e cerco di svicolare tra gli altri, perdendo l’equilibrio un paio di volte. Ho ancora i vermi in mano, devo farli vedere a mia madre, l’unica persona che ho in mente che possa darmi consigli sul da farsi. Mi rendo conto subito dopo che non c’è più ma la cosa non mi butta giù più di tanto e penso che sono grande abbastanza per cavarmela da solo.
Esco di scena, ho in mano un filetto di pesce la cui consistenza della carne somiglia molto a quella dello sgombro in scatola. Lo sto ispezionando in cerca di altri vermi.