Sono all’interno di un palazzo in via di ristrutturazione, polvere e odore di solvente contaminano l’aria. C’è il mio datore di lavoro che indaffarato da ordini agli operai . Decido di uscire da una porta anonima che mi porta su una terrazza fatiscente, posta all’apice di una collina. C’è una vista meravigliosa, il cielo limpido si tuffa nel mare creando un’armonia di colori . Vado a sedermi sul bordo mezzo diroccato di questa terrazza. Accanto a me c’è una donna che guarda il panorama, ha dei lunghi capelli bianchi raccolti in una treccia che le avvolge la testa. Mi guarda e mi chiede cosa voglio fare. Le rispondo che voglio solo guardare questo spettacolo. Di lì a poco mi sento scivolare in avanti e precipito, lentamente la brezza mi da un’assetto e planandomi come un aeroplanino di carta mi porta verso la costa. Nel passare vedo campi coltivati che dal verde acceso passano al color sabbia della spiaggia. Prima di arrivare al perimetro del mare riesco ad aggrapparmi ad un masso enorme. Nel penzolare mi rendo conto che questo non è un masso qualsiasi ma ha una forma. E’ un piede gigante. Dita grandi come palazzi ricoperte di ferro. Sono atterrita dall’altezza ma non posso rimanere lì…! Prendo coraggio e come un free climber riesco a scendere. Mentre scendo con cautela vedo degli occhielli metallici che spuntano fuori. Mi fanno capire che io non sia la sola ad essere atterrata lì. Arrivo fino alla base del tallone ma lo spazio che mi separa dal suolo è troppo alto. Decido di saltare, o la va o la spacca. Prendo un bel respiro e mi lascio cadere. Atterro facendo un capitombolo, illesa ma piena di sabbia mi siedo volgendo lo sguardo a questo mare a me sconosciuto.
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Alessandra
Aveva deciso di lanciarsi senza paracadute, io forse avrei potuto impedirlo ma non lo feci. La guardai gettarsi nel vuoto, guardai il caschetto, i capelli biondi, il vestito blu. Mi gettai anch’io. L’aria era violenta e gli occhi faticavo a tenerli aperti. Un cavo oscillava furiosamente sotto di me, strattonando e frustando l’aria. Lì era appeso il paracadute per Alessandra.
Lei avrebbe dovuto cercare di agganciare il cavo, raggiungere il paracadute, indossarlo e aprirlo. Se fossimo state troppo vicine a terra avrebbe anche potuto tentare di raggiungere direttamente il paracadute, non so. Comunque non fu questo il problema.
Vidi il suo corpo a pochi metri sotto di me: manteneva una posizione orizzontale e alata. Quando fu abbastanza vicina al cavo tese le mani in avanti, formò una specie di abbraccio. Poi le sue braccia si aprirono e lei fu trascinata un po’ più giù e un po’ più lontana. Precipitavamo entrambe ancora abbastanza lentamente.
All’inizio cercai di raggiungerla. Il mio corpo mi faceva sembrare il tentativo possibile. Quando me la trovai vicina lei alzò il viso verso di me, come se avesse intuito la mia presenza. Poi si allontanò di nuovo. Non venni giù rovinosamente ancora per un po’: l’aria mi cullava, mi sosteneva. Lo stesso non si poteva dire di lei, finché non la persi di vista.
Intorno a me era un susseguirsi di colline: all’inizio mi apparvero come un’indistinta massa di verdi e marroni, poi iniziai a riconoscere il tracciato dei fiumi e dei torrenti, la forma dei boschetti che li costeggiavano, il colore fermo dei campi appena arati. Lei non c’era, né intorno a me, né sotto, né altrove. Sotto di me era pianura, era il suo paracadute ancora agganciato a me. Lei continuava a non esserci, c’era solo una macchia scura che precipitava sempre più rapida verso il basso, verso il paese, le case, i cortili, un albero, il cemento.
Mi restò il tempo di ricordare l’espressione dei suoi occhi, frutto del bisogno che aveva avuto di noi, della certezza che non l’avrei lasciata sola, del suo docile abbandonarsi.
Alessandra attribuiva completa fiducia a quelli cui concedeva il potere di salvarla. Non trovai nessun motivo per aprire il mio paracadute.