Velocità

Inizia che mi sveglio da un sonno profondo e non capisco subito dove sono. Ma in un attimo metto insieme i dettagli e connetto logica ed emozioni: dentro un’auto bassa bassa e molto spartana, da corsa ma tipo go-kart, lamiera. Velocissimo sotto di noi il nastro di asfalto nero della pista. Se allungassi il braccio fuori potrei toccarlo e penso (e immagino la scena) all’abrasione che mi consumerebbe mezzo braccio in un nanosecondo pulp. Paralizzata e schiacciata. Un rumore frastornante. L’auto è verde Kawasaki (so che ne avevamo parlato un paio di giorni prima), colore che non mi piace e gliel’ho detto. Il poggiatesta con dietro quella semi-ogiva che fa tanto auto sportiva, sempre verde. Non c’è tetto, se la pressione non me lo impedisse saprei che sopra c’è sole e cielo azzurro. Forse c’è un rollbar. Andiamo alla velocità della luce verso un cavalcavia. Sono terrorizzata, non sono io a guidare, ho freddo, sono assordata, non ho il controllo, vorrei urlare ma l’aria contro non fa uscire la voce. Finalmente trovo il coraggio per voltarmi e guardare chi guida, se qualcuno guida. Giro la testa, lo vedo, mi sorride rilassato e a suo agio, allunga la mano destra sul mio ginocchio e io improvvisamente mi sciolgo, sento la paura andarsene e lo starbene che si fa un giro in tutte le mie vene.

La fabbrica

Sono in una fabbrica, una sorta di industria siderurgica nella quale vengono lavorati a caldo metalli di vario genere. Sui binari che corrono in molte direzioni e a vari livelli, quasi come in un film della Pixar, scorrono vagoni a rotelle di varia misura.

Improvvisamente, davanti alla piattaforma sulla quale mi trovo, un carrello a forma di treno esce dalle rotaie. Il vagone rimane in bilico sul precipizio che divide la piattaforma sulla quale mi trovo dai binari sospesi nel vuoto.

Il treno è pieno di bambini impauriti. Grido loro di non avere paura e comincio a pensare a come salvarli. Chiedo ad un bambino di lasciarsi cadere dal vagone per raggiungere le mie braccia. Il bambino si fida e si lancia. Lo raccolgo al volo con la mano sinistra e, accompagnando con un movimento morbido la caduta, rendo possibile l’atterraggio del bambino sulla piattaforma. Riesco a salvare in questo modo tutti i bambini più piccoli; chiedo, invece, a quelli più grandi di spiccare un salto spiegando con quali modalità debbano atterrare per evitare un urto doloroso.

I bambini sono salvi e io mi dirigo dal direttore della fabbrica per raccontare l’accaduto.

Deliri toscani

Sto a San Quirico a casa dei miei. Mentre mi dirigo verso il campo oltre il ponticello intravedo mio padre. Lo saluto e dietro di lui noto che non c’e’ piu il recinto con le caprette e le grotte che c’erano prima sono state ristrutturate con blocchi di tufo nuovi nuovi. Gli chiedo che fine abbia fatto il recinto e lui indica alla mia destra. Mi giro e vedo che, nel lato destro del campo, c’e’ una costruzione ad un piano costituita anch’essa da blocchi di tufo. E’ molto ampia e con un terrazzo rialzato dal terreno costruito con assi di legno. La trovo fantastica e non vedo l’ora di visitarla da piu vicino. Chiedo a mio padre quando sia stata costruita e lui, con fare un po’ scocciato mi dice “Eh, quando e’ stata costruita secondo te?”… dal suo tono e viso capisco che l’ha costruita lui nella mattinata. Mi giro di nuovo verso la costruzione ora separata da me da una rete metallica, oltre la quale c’e’ mia sorella V., vicino alla casa. Abbasso lo sguardo e intravedo un’apertura nella rete e decido di sfruttarla per avvicinarmi a questa opera edile. Infilo prima la testa e noto che una radice fuoriuscita dal terreno mi complica il compito di raggiungere l’altro lato della rete, nel mentre un serpentello esce dal terreno. Allora mi affretto e inizio a gridare a mia sorella “Un serpente, un serpente!” perche’ ho paura che mi morda, poi il serpente cresce di dimensioni e dico “Ah no e’ un boa” e mi tranquillizzo perche’ so che il boa non uccide mordendo.

Mi ritrovo prima del ponticello con F. e le dico che non trovo piu la marijuana. Lei mi indica una piantina vicino a me dicendo che posso usare quella anche se non e’ cresciuta molto perche’ e’ inverno, la prende e me la porge. E’ buio e non capisco bene di che pianta si tratta poi capisco che si tratta di rosmarino e mi indispongo un po’ perche’  ha tolto una piantina di rosmarino dal terreno quando questa doveva ancora crescere. Sondo il terreno col dito per trovare l’alloggiamento originario della piantina e una volta trovato lo allargo un po’, ripongo la piantina e compatto la terra attorno ad essa.

Mi dirigo verso la porta di casa e dal vetro vedo mia sorella V. che pulisce per terra, indossa una vestaglietta bianca e delle cuffiette, mi sembra un po’ agitata. Busso al vetro e lei si gira, apro la porta, entro e lei inizia a lamentarsi del mocio che sta utilizzando, non funziona come dovrebbe. Me lo mostra e in effetti non e’ il classico mocio che tutti conosciamo, al posto delle fettucce ha dei fili blu, tantissimi.

Sono di nuovo con F. nello spazio prima del ponticello e sono in ansia perche’ non troviamo piu nostra figlia. Le chiedo se e’ stata lei la sera prima a metterla in macchina poiche’ io non ricordo di averlo fatto. Sono nel letto di casa di Roma che piango per questo fatto, F. non c’e’. Mi sveglio e la vedo che guarda nella culla, le chiedo “E’ tornata? Dov’e’ stata tutto questo tempo?”. Poi mi sveglio sul serio…